Con questo lavoro intitolato “IL VELO”, Marica Di Bartolo ha messo in scena per immagini le tre fasi della tecnica analitica: ricordare, riprodurre, riutilizzare, così come teorizzate da Sigmund Freud; lo ha fatto attraverso un racconto dell’intimità che, spesso, si rivela essere semplicemente necessario in uno specifico momento del percorso artistico degli autori. In psicanalisi è proprio attraverso le immagini che il paziente può far riaffiorare gli eventi traumatici che sono stati rimossi con l’aiuto del terapeuta e rielaborare la resistenza che li cela alla coscienza, creando risorse per l’analisi e superando così la “coazione a ripetere” che li accompagna.

Le immagini: luogo della verità o dell’inganno, dotate di vita autonoma o dipendenti dalle sensazioni , reali o illusorie, hanno conosciuto in Occidente, fin da Platone, una storia complessa e accidentata. Secondo Jung le immagini che abitano l’inconscio collettivo, gli archetipi, esprimono gli aspetti più autentici e profondi della psiche. Quando si presentano nell’inconscio essi sono in grado di attivare una radicale trasformazione psichica. Quanto più si abbassa il livello della coscienza, come accade nei sogni, tanto più gli archetipi dispiegano il loro potere, che presenta un carattere vicino a quello del sacro, in grado di influenzare la coscienza fino a farla ammalare. Proprio nella follia le immagini archetipiche esprimono in forma compiuta tutto il loro potere. Saperle riconoscere e rappresentare in forma artistica consente talvolta di contenerle e aiuta a dare senso alla dissociazione e al dolore psichico.

Una narrazione, quella di Marica Di Bartolo, imperniata sull’autoritratto, qui inteso come strumento per osservare se stessi in modo diverso, per entrare in contatto con emozioni differenti; uno sguardo paradossalmente “esterno” e in un certo senso oggettivo, che aiuta a prendere coscienza di se stessi ed è un ottimo viatico per un percorso di approfondimento molto più intenso, perché cosciente dell’atto.

E’ in casi come questo che la fotografia può essere benefica poiché consente di avviare e di sostenere un processo di elaborazione dei temi che altrimenti insistono e “resistono” magari come sintomi, o dolori non comunicabili. Nella produzione artistica, infatti, si attua una sorta di sdoppiamento dell’Io: mentre l’artista crea un lavoro sperimenta in qualche modo un proprio doppio creativo, come se si “vedesse” mentre crea e dà forma a contenuti propri. La possibilità di esprimersi è benefica in sé, ma quando lo è entro una dimensione artistica lo è a maggior ragione. Inoltre, qualsiasi opera d’arte è un atto di comunicazione: prevede, anche quando l’artista non ne sia consapevole, un osservatore, uno spettatore, un altro (che come detto sopra può essere anche il proprio “doppio”) che accolga l’opera e ne rielabori il messaggio. In questo senso è almeno potenzialmente un dialogo che crea relazioni di senso e benessere. Come sostenuto da Freud, l’artista e il fruitore sono consapevoli del fatto che l’arte non sia la realtà, che rappresentare la morte, o il dolore, o il male, o anche la felicità in una fotografia non coincida con la realtà di quel contenuto, ma che proprio tale finzione consenta loro di vivere appieno ed emotivamente in modo intenso quel contenuto.

E qualsiasi elaborazione mentale è un passo verso un maggior benessere: riuscire a pensare e a provare emozioni genera benessere di per sé.

In questo lavoro, l’autrice svela cio’ che si cela sotto la superficie del suo essere; tutti noi siamo come un iceberg di cui vediamo solo la punta che emerge dall’acqua, quella su cui soffiano i venti e non siamo consapevoli che al di sotto di essa si trova una parte molto più grande su cui spingono le correnti del mare. E’ il regno dell’immagine intimistica, della fotografia che si fa voce, dove l’artista sceglie di raccontare se stesso, prima di ogni altra cosa; è l’arte a offrire domande al suo pubblico. Ogni fotografia assume un significato, non solo per l’autore che l’ha prodotta, ma anche per l’osservatore, perché il processo proiettivo è costantemente in atto e quindi tutto quello che vediamo e produciamo è influenzato dal significato che noi diamo a quell’esperienza, a quella realtà, a quell’immagine; processo di identificazione che riescono a instaurare, spesso proprio in un fruitore che cerca la rilettura delle proprie fragilità attraverso la rappresentazione di quelle degli altri.

In questo progetto, l’autrice fa lavorare i simboli, cioè l’immagine di una cosa che rimanda a qualcos’altro e ci conduce per mano attraverso la sua storia che diventa immagine riflessa, segno della fotografia come irrealtà, ma anche come proiezione, come orma, come impronta di qualcosa che è esistito davvero. E’ la rappresentazione di un viaggio della mente che inventa e scopre, che gira intorno, che accarezza le cose e le sfiora, come luce diffusa; un racconto che svela e cela, che mostra e nasconde, che gioca con lo sguardo di chi osserva per poi fuggire via lontano.

Ricordare, riprodurre e riutilizzare, quindi, che nell’arte corrispondono rispettivamente all’atto di catturare, esplorare e rappresentare i recessi più reconditi della mente.

Metafore visive, composizioni suggestive, sovrapposizione di immagini, grande coerenza cromatica; è così che l’autrice ci comunica concetti complessi e emozioni profonde senza dover ricorrere alle parole. Questo crea un’esperienza visiva e emotiva unica per gli spettatori, che possono connettersi con le immagini su un livello profondo e intuitivo.

“IL VELO” è un gioco collettivo e sociale, un viaggio comune che ci spinge ad andare oltre, al di là dello specchio, come Alice.

“IL VELO” è un viaggio costellato di matrici e simboli che rappresentano immagini che rappresentano idee di cose e racchiudono altri progetti.

“IL VELO” è una narrazione di tante storie, perché racconta qualcosa di profondo e universale; è un viaggio nella complessità dell’animo umano attraverso l’arte visiva che, rendendo tangibile l’intangibile, illumina le profondità della nostra anima.

                                                                      Michele Di Donato

 

Le immagini sono conosciute in Occidente fin da Platone, costituendo un luogo della verità o dell’inganno e dipendendo dalle sensazioni, reali o illusorie. Gli archetipi, che Jung definisce immagini che abitano l’inconscio collettivo, rappresentano gli aspetti più veri e profondi della psiche. Sono in grado di provocare una trasformazione psichica radicale quando si manifestano nell’inconscio. Gli archetipi perdono potere a medida che si abbassa il livello della coscienza, come accade nei sogni, e il loro potere diminuisce proporzionalmente. Questi archetipi hanno un carattere simile al sacro e possono influenzare la coscienza fino a farla ammalare. Le immagini archetipiche mostrano tutto il loro potere nella follia.

Con questo lavoro intitolato “RADICI…il velo”, Marica Di Bartolo ha inteso fare proprio questo: attraverso il medium “fotografia” ha messo in scena le tre fasi della tecnica analitica: ricordare, riprodurre, riutilizzare, così come teorizzate da Sigmund Freud. Lo ha fatto attraverso un racconto dell’intimità che, spesso, si rivela essere semplicemente necessario in uno specifico momento del percorso artistico degli autori.

Un racconto basato sull’autoritratto, qui utilizzato come mezzo per osservare se stessi in un modo diverso e interagire con varie emozioni; uno sguardo paradossalmente “esterno” e in un certo senso oggettivo, che aiuta a prendere coscienza di se stessi ed è un ottimo punto di partenza per un percorso di approfondimento molto più profondo perché cosciente dell’atto.