Fra teatro ed analisi

 “La penombra che abbiamo attraversato” ripete l’espressione che Marcel Proust adopera a proposito dell’infanzia e che Lalla Romano utilizza, poi, come titolo del suo celebre romanzo.

Dei due scrittori, Cosimo Di Guardo riprende il rigenerante senso della memoria e la necessità di esprimere il rinvenimento di quegli stadi intermedi della nostra umana vicenda ovvero quei momenti di passaggio non sempre individuabili o percepibili perché, assai spesso, nascosti, ambigui, sfuggenti agli accostamenti ed ai confronti.

Ed a ben osservare di questo trattasi. 

Di accostamenti e di confronti, vissuti e proposti come riconoscimenti o rivelazioni,  con tutte le implicazioni dei simboli che la nostra personale storia  finalmente riconosce e con tutti gli affioramenti del nostro inconscio nonché della parte più sorprendente del nostro io.

Le immagini, e la composizione fotografica, risentono della necessità di queste motivazioni e  formalmente si esprimono attraverso la  sovrapposizione di due negativi. Ma i due negativi, integrandosi fra loro, provano a superare lo stato di penombra cui sono stati costretti e si propongono alla visione con i risultati dell’incontro/rivelazione e con l’individuazione dei segni del nuovo riconoscimento.

Questa esperienza, avverte l’Autore, non è nata a livello di ripresa  quando l’occhio del fotografo altro non ha realizzato che una scelta visiva, aggiungendo o eliminando quello che interessava il proprio sguardo.

Quest’esperienza inizia quando, dall’”accostamento” in camera oscura, è affiorato, con sorpresa, ciò che la macchina “naturalmente “ ha catturato ma il nostro occhio “subdolamente” non ha voluto vedere.

In questo delicato momento la storia ha cominciato a vivere, a parlare, pretendendo dal fotografo/stampatore un suo “sviluppo” e ricevere da lui un riconoscimento fatto di nomi, date, luoghi, gesti, volti e simboli

Una “storia nuova”, insomma, che impone un nuovo equilibrio visivo, con immagini che dialogano internamente, tra vuoti e pieni, tra primi piani e dettagli, tra finti orizzonti e quinte sceniche che delimitano il bianco ed il nero delle emozioni, che accolgono in spazi non più reali autentiche angosce e concreti disappunti, rimpianti e delusioni.

Dall’accostamento viene fuori un flusso emotivo che tende ad uscire dal campo del fotogramma alla ricerca di un”non luogo” fotografico, di uno spazio teatrale dove tentare di rinvenire una più stabile realtà. Ne consegue che la composizione formale tende alla disarmonia, diventa emotivamente concitata e la sovrimpressione finisce per rispecchiare l’accavallarsi delle emozioni sicché il risultato finale si allontana dalla descrizione di una realtà esteriore e rimanda all’analisi di un’intima, esistenziale condizione soggettiva.

E dalla dialettica contrapposizione, dall’intrusione di altre storie, d’altri simboli e di altre memorie, discende una situazione di disequilibrio che viene ricondotta alla narrazione ( e quindi alla sua esplicitazione) grazie ad un atteggiamento fotografico di tipo teatrale capace, quindi, di distinguere tra essenza ed apparenza.

 Pippo Pappalardo