11 maggio – 8 giugno 2019 / Face – mostra di Roberto Rossi

E allora partiamo da lì, da quello che scrive Roland Barthes e che giustamente Michele Smargiassi ricorda: “Davanti all’obiettivo io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte”. In poche righe la storia della relazione fra fotografo e fotografato e il vademecum indispensabile che entrambe le parti in gioco devono conoscere. Manca solo un passaggio: quello che io faccio finta di essere e quindi che il fotografo crede che io sia. Guardando i ritratti di Roberto Rossi la citazione diventa quasi obbligatoria perché in questo suo catalogo di volti, di espressioni, di possibili diverse declinazioni del concetto di ritratto, ognuna delle ipotesi barthesiane diventa reale. Ma c’è di più. Ogni fotografo, e credevo che questa fosse una verità incontrovertibile, quando lavora ha una distanza “giusta” dal suo soggetto, una “misura” grazie alla quale riesce a dare il meglio di sé. Rossi dimostra con maestria che questa verità è invece controvertibile. I suo ritratti non hanno una distanza costante, non una luce coerente, non un’ambientazione che si ripete. Pensiamo ai fondi marezzati di Irving Penn? Qualcuno c’è, ma troppo pochi per diventare stile. Pensiamo ai ritratti aspri, senza compassione, di Richard Avedon? Qualcuno c’è, ma troppo pochi per pensare che il maestro americano sia un suo punto di riferimento. Pensiamo ai primissimi piani che evidenziano i segni dell’acne o della vita, come in certi ritratti di Yousuf Karsh? Qualcuno c’è, ma serve a dare ritmo alla sequenza. Pensiamo alle microambientazioni in studio, con una poltrona per mettere a proprio agio il soggetto, come ci insegnano gli albori della storia della fotografia? Qualcuna c’è, ma sono troppo poche per diventare sistema. Pagina dopo pagina le facce che Roberto Rossi ci regala sono una sorpresa: diversa la distanza, diversa la luce, diverso il punto di vista, diversi linguaggio e intenti narrativi. Rossi ci insegna i mille modi con i quali si possono ritrarre mille facce, senza ripetersi, senza volersi appiattire a uno stile, senza avere maestri da emulare. Una sola unica regola, forse neppure voluta: quasi tutti guardano in macchina, quasi tutti guardano il fotografo. Il dialogo degli sguardi è naturale e inevitabile perché il legame tra gli interlocutori è un’altra costante, questa incontrovertibile davvero: tutti sono consapevoli di essere in posa, di essere quello che vogliono essere, di essere quello che pensano potrebbe piacere a Roberto Rossi. Che sa che la fotografia mente, che sa che tutti i suoi ritratti, tanto magistralmente realizzati e messi in sequenza, raccontano solo una sua verità attraverso le fisionomie di altri, suoi complici involontari. Scopriamo, leggendo il testo di Michele Smargiassi, che questi ritratti sono stati realizzati nell’arco di otto anni, ogni anno con un tema o uno stile diverso. E qui entrano in gioco anche le sue capacità di editore e di comunicatore, capace cioè di mettere in sequenza volti che nascono per serialità diverse e che trovano una nuova coerenza nei ritmi che si alternano, nel mescolarsi delle diverse distanze che il girare delle pagine scandisce. Sono le facce degli amici di Roberto Rossi e se amici veri magari non sono, lo sono stati certamente per quell’ingannevole sessantesimo di secondo in cui il suo flash è scattato.

Giovanna Calvenzi

11 maggio – 8 giugno 2019
Galleria FIAF Civica Fototeca Nazionale – Sesto San Giovanni
Inaugurazione sabato 11 maggio