LA FOTOGRAFIA STENOPEICA

“Sténos opàios”: dal greco,”Piccolo foro”. E’ questa la radice etimologica della fotografia cosiddetta “stenopeica”.

Un piccolo foro di pochi decimi di millimetro, una scatola a tenuta di luce annerita all’interno, un qualsiasi materiale fotosensibile sul quale il piccolo foro proietta i raggi luminosi, capovolti e invertiti di lato, provenienti dall’esterno, formando in questo modo una immagine Foto-Grafica: la forma più semplice e pura di fotografia ridotta ai suoi elementi fondamentali.

Il principio della “Camera obscura”, già noto nell’antichità ai dotti arabi intorno all’anno mille e mirabilmente descritto da Leonardo da Vinci nel suo “Codice atlantico”, è alla base della costruzione di apparecchi con i quali i pittori del ‘600 si aiutavano per copiare a ricalco, sopra un vetro smerigliato, scene di paesaggio; gia all’epoca molte di queste “scatole ottiche” erano equipaggiate con una lente posta davanti al foro che ne aumentava la luminosità e da uno specchio interno inclinato di 45° in modo da riflettere l’immagine sul lato superiore dello strumento per agevolare il disegno: le antenate della moderna reflex, anche se l’immagine fotochimica sarebbe nata solamente nella prima metà dell’800.

Le immagini che si ottengono tramite un foro stenopeico non risultano mai perfettamente nitide ma straordinarie per l’atmosfera che restituiscono e le prospettive inusuali che si creano.

Immagini quasi oniriche ma assolutamente reali: niente è perfettamente definito eppure tutto risulta a fuoco da zero a infinito con angolazioni che nessun sistema ottico è in grado di rendere in tale modo.

Una rappresentazione della realtà alla quale il nostro occhio non è abituato, ove tutto è apparentemente immobile eppure vibrante nella luce che delimita i contorni degli oggetti; un mondo che appare sospeso, irreale, talvolta inquietante ma sempre riconoscibile.

La fotografia stenopeica è la fotografia della lentezza e della ponderazione: impressionare una immagine spesso richiede parecchi minuti di esposizione e questo induce a rapportarsi alla realtà che si vuole rappresentare in maniera molto diversa rispetto alla “voracità” con la quale si catturano immagini spesso “usa e getta”. Questa diversa mentalità fotografica invita ad entrare nel soggetto, ad aggirarsi anche materialmente in esso, invita a cercare di comprendere cosa da esso si vuole trarre e cosa, esso soggetto, suscita nella sensibilità del fotografo. Il risultato è un modo di operare che è insieme più rilassato ma anche più meditato, consapevole e coinvolgente.

Oggi, dove tutto è velocità e dove l’invadenza di un iper-tecnologismo tende a permeare ogni aspetto della nostra vita, solamente pensare di poter lavorare con mezzi tanto elementari non può che apparire come una sorta di rivincita dell’uomo sul mezzo, un sano esercizio disintossicante.

E poi, ammettiamolo, produrre immagini con una semplice scatola bucata non è già di per sé piacevolmente gratificante?!

Mario Faini